C’è un nocciòlo sotto casa mia che fa ombra e ombrello a una panchina dove a sera la gente prende il fresco, il fresco e qualche fronda per via delle nocciole troppo buone e delle zanzare da scacciare. Prende il fresco e se la conta, che se stessi un po’ più attento sarei aggiornato sul mondo e sul paese, ma mi confondo facilmente, non so la differenza tra la “Pina biunda” e la “Cina russa”. Allora mi accontento del cicaleccio sincopato che s’arrampica sui rami e sale alla finestra.
A sera la gente prende il fresco, e mi sta bene, ma di giorno quella panchina è mia. Spesso quando mi sveglio ho una strana irrequietezza, come di belva in gabbia. Forse è il pensiero che la panchina sia occupata da qualcuno che magari si riposa sulla strada del mercato. Mi metto in ascolto, rumori e voci mi sanno dire le presenze. Ma se sento un silenzio promettente dalla finestra guardo giù a conferma e, se giù non c’è nessuno, mi azzardo sulla strada. Pochi metri svelti in campo aperto e mi ritrovo lì, sotto al nocciòlo, ad occupare la mia panca. E lì io resto, il canale a pochi passi, il campanile sullo sfondo.
E subito sto meglio.
La gente crede che io stia lì a far niente, come fossi inebetito. Passa e mi saluta, ciao “Pedala”, il sorrisetto saputo sulle labbra. Io lascio lo sguardo lì dov’era e non rispondo. Quel nomignolo mi manda in bestia. Risale a quando consumavo il tempo su una bicicletta sgangherata e i bambini del paese inseguivano la mia fatica con un coro di “pedala, pedala” e sassi e sputi d’incoraggiamento mentre arrancavo sullo stradone per la chiesa.
Bastardissimi bambini.
Consumavo il tempo su una bicicletta sgangherata, lo sminuzzavo avanti e indietro senza meta e senza gioia, come fosse una missione.
Finchè un giorno la vocazione se n’è andata, così, di punto in bianco. Uno smarrimento, giusto a metà del ponte in pietra, la sensazione di un errore madornale. Un’azione senza senso questo masticare il tempo come una bistecca dura. Così ho sollevato la bici sopra la testa e con un urlo l’ho scaraventata nel canale. Poi mi sono seduto sulla panca, esausto. E lì, sotto il nocciòlo, m’invase lenta una quiete, come una comprensione universale.
Di fronte avevo il campanile a scandir le ore, una dietro l’altra, il tempo circolare e falso delle lancette che sempre tornano a se stesse.
Ma vicino a me avevo il canale, il silenzioso scorrere dell’acqua, le particelle limpide che sempre uguali non sono mai le stesse. È quello il tempo che ti passa sotto il naso e mai ritorna indietro.
Il tempo vero da guardare.
Da quel giorno torno ogni giorno all’ombra del nocciòlo. Sto lì tranquillo, lo sguardo fisso all’acqua, che da sinistra a destra passa. Sembro inebetito, ma comprendo, lo spazio e il tempo, come dire tutto quanto c’è da sapere.
Ogni tanto si ferma un’auto e mi chiedono un indirizzo.
Io mi alzo in piedi, che magro e sgraziato come sono assomiglio al campanile, e lentamente sollevo il braccio destro ad indicare la direzione che ha preso l’acqua, l’unica cosa da sapere.
E quando il braccio è alto e teso modulo un “uuhuhuuu” sempre più potente, come salmodiassi un inno sacro.
Ma loro non capiscono il messaggio e per sapere l’ora continuano ad alzare gli occhi al campanile anziché abbassarli all’acqua.
è sempre straordinario sto pezzo!
mi fa piangere e ridere e non so mai se scegliere ridere o piangere.
non sono poi così diverse le lacrime dalle risa, due emozioni contigue. 🙂 ml
ho scoperto che si può ingrandire la foto, cliccandoci sopra, e allora si può vedere il “pedala, pedala”. ml
carino questo omino, il vero salto l’ha fatto quando ha deciso di seguire un tempo tutto suo e di pedalare solo perché gli fa piacere senza l’ossessione di dimostrare qualcosa a quei bambini dispettosi
ciao grazia, questo omino saggio e stralunato un po’ appartiene a noi che a volte sappiamo guardare il tempo che non siano lancette. ml
lasciarsi scorrere sulla panchina in riva al canale invece di girare i pedali della bicicletta scimmiottanto il moto circolare delle lancette dell’orologio del campanile.
mi piace proprio la saggezza salmodiante, nonché incomunicabile dell’uomo-camapanile.
L’orologio compie un giro e poi riparte per un altro. L’acqua scorre e non torna, non tornerà’ mai indietro. E poi se ascolti bene il paese, puoi conoscere il mondo.
vero! è tutta qui l’essenza.
ciao
ml
Ero passata in silenzio perché tale è l’atmosfera che il tuo racconto suscita. Mentre la figura del nocciolo guida al raccoglimento, c’è il tempo che segue lo scorrere del fiume. Una panchina è lì ad accogliere colui che sa diventare padrone del proprio tempo.
Buonecose
ti ringrazio davvero, ho gradito le parole 🙂
ml
Ecco un altro “Urlo” … questa volta di rabbia ma anche e soprattutto di liberazione per potersi impadronire del proprio tempo e fare ciò che più piace senza che scorra inutilmente.. e così Panta Rei – tutto ha ripreso a scorrere fluidamente come quell’acqua del canale
Ciao Chiara 😊
l’insostituibile ruolo delle lettrici attente! Mica lo sapevo io che l’Urlo è quasi la firma alla fine di parecchi racconti (non oso dire..di 3 racconti, perchè magari ne scovi un quarto). E mi chiedo che significato possa avere questo mio ricorrere ad una forma espressiva inusuale, inarticolata, che non prevede parole, a suggello di storie diverse.
Questo ultimo urlo è rabbia, come dici tu, per la certezza di non essere capito.
ti confesso un retroscena, questo racconto nasce dalla elaborazione di tre episodi reali: una volta un uomo, probabilmente un sordomuto a ripensarci ora, mi rispose così ad una richiesta di informazioni, alzando un braccio ed emettendo un suono gutturale. In paese c’era un tipo, non tutto finito, che girava in bicicletta senza meta per giornate intere. Infine, una volta arrancavo in bici su un tornante e un bambino che giocava sul ciglio della strada s’è messo a canzonarmi proprio con quella parola ripetuta..pedala, pedala!!
un sorriso, Chiara
ml