la città morente

5 Giu

by c.calati

 

 

Sono sere, queste, che restano appese a un imbrunire inutilmente lento. Sere che Nicola vorrebbe si consumassero in fretta, come la sigaretta che gli pende dalle labbra. Tiene i gomiti appoggiati al davanzale e gli occhi fissi su quelli di Oreste. Ma i due forse non si guardano davvero, si fissano per ignorarsi, odiarsi o perdersi ciascuno nei propri pensieri. Oreste, come sempre all’ora incerta, è appollaiato tra le tegole del tetto di fronte. Stupido gatto che potrebbe rimanere in casa se quello che vuole è solo guardare il suo padrone. E invece no, appena cala il sole smania per uscire, salta alla finestra, percorre il cornicione stretto, prende la via dei tetti, compie un complicato giro di abbaini, si cala da un glicine striminzito, infila il ponte sul canale, s’arrampica tra poggioli e vasi di salvia, sbuca tra i comignoli e va a piazzarsi esattamente di fronte all’uomo affacciato. E lì sta immobile, gli occhi negli occhi fermi, in attesa che la notte smuova entrambi, Nicola verso un letto insonne, lui verso un  buio compiacente dove, nero su nero, sparirà. Ma intanto sembrano due condannati alla stessa pena. La pena loro ha un bel nome di donna, come un tempo gli uragani americani. Benedetta.

E una vera benedizione lei era stata per qualche tempo troppo breve.

Davanti agli occhi come ciechi scorrono ogni sera le immagini della bella estate a Procida, la sua Procida più di un anno prima. Quella turista dalla pelle pallida sul nero degli scogli, scoglio lei stessa di poca confidenza, il baruccio al molo dove lui le aveva teso ingenui agguati, gli sguardi, le schermaglie, la barca tra le grotte, la resa inattesa, lo scoglio che si scioglie, la passione e le promesse. E poi il distacco che li aveva fatti sentire più vicini, l’intimità della distanza, le voci, le parole, il desiderio e quel richiamo, vienidameamore. Quindi l’azzardo di osare il sogno. Aveva brigato un anno per ottenere il trasferimento al Nord. Lui così legato alla sua gente e alla sua isola aveva trovato il coraggio di partire, consolandosi col fatto che Oreste avrebbe condiviso rischio ed avventura e che insieme avrebbero incontrato altra acqua a circondarli.

Come gli sembra lontano ora quel tempo, anche se sono passati pochi mesi dal suo arrivo in Laguna. “La nuova vita inizia”, aveva mormorato al gatto trattenuto in braccio, sbarcando tra i piccioni. La città l’aveva accolto con la maestosità che riserva sempre agli amori felici. Si era fatta cornice dorata al loro incontro, scenografia impeccabile di dedali in cui perdersi, piazzette e chiese da scoprire con occhi trasognati, calli, botteghe, voci, musiche, gondole, palazzi. E lei, la donna benedetta, per amor suo si era fatta sconosciuta ai propri luoghi, per lui aveva improvvisato una nuova meraviglia, come davvero non sapesse i passi esatti tra l’acqua e i muri.

La breve felicità perfetta.

Nicola guarda giù, verso l’acqua scura, sente il marciume che sale inesorabile.

Questa città non ti perdona il fallimento, da regina diventa zoccola dalla risata lugubre e sdentata, ti trascina tra i rifiuti, ti si offre sconcia contro muri ammuffiti, ti costringe allo schifo e al puzzo. È una puttana sifilitica che presto ti contagia e a poco a poco muore assieme a te.

Nicola alza lo sguardo, pochi canali più in là sta Benedetta, mai così lontana, irraggiungibile. Gli è incomprensibile la metamorfosi di entrambe, inspiegabile Venezia, indecifrabile la donna che credeva di conoscere.

A quel punto cava fuori dal portafoglio una lettera che in pochi giorni è già sgualcita. Fissa le frasi scarne dell’addio che pure sa a memoria, forse nella speranza di trovarvi  parole differenti. Rilegge “..questa presenza è troppa per me che mi ero nutrita di tua assenza così viva. Perdona, non credevo potesse diventare intollerabile la vicinanza dell’amore” e lo sconforto lo attanaglia, non resiste all’immutabilità della parola scritta.

Ma questa sera finalmente è rabbia e odio.

Strappa il foglio e lo riduce in minimi frammenti. Con un gesto un po’ teatrale li disperde come cenere nell’aria e li osserva cadere sull’imbarcazione nera che scivola silenziosa con il suo carico d’amore. Sogghigna Nicola nel constatare quanto è brutta quella che pochi giorni prima aveva chiamato la nostra cara barca. Guarda dall’alto l’uomo che rema ritto e ridicolo, gli sembra un Caronte che traghetta amanti ignari verso la prossima infelicità. Non prova pietà per loro, è infastidito da quel quadretto, così centra la gondola con uno sputo ben dosato. Poi finalmente chiude la finestra.

Intanto Oreste, nero su nero, è sparito nel buio della notte, per lui Venezia è ancora vita.

30 Risposte a “la città morente”

  1. E. 5 giugno 2017 a 23:13 #

    Ammiro molto quello che scrivi. Io parlo quasi sempre del mio vissuto, a volte invento qualcosa ma ho bisogno di una base da cui partire. Mi piacerebbe invece essere in grado di avere della fantasia da cui lasciarmi trasportare.

    • massimolegnani 6 giugno 2017 a 00:16 #

      io credo che a volte sia salutare prendere le distanze dal proprio vissuto “diretto”, ipotizzare scenari differenti dal reale, immaginare un personaggio fittizio con cui, scrivendo, finiamo con l’identificarci attribuendogli scelte e gesti che sono più nostri che suoi. Ecco che alla fine siamo tornati a noi 🙂
      (grazie davvero per l’apprezzamento)
      ml

  2. MisterGrifo 6 giugno 2017 a 01:24 #

    Uno spaccato di vissuto…

  3. lamelasbacata 6 giugno 2017 a 08:10 #

    Quando un amore, se di amore si tratta o forse era solo infatuazione, si nutre di lontananza e ricordo e non tollera la presenza, ecco che imputridisce presto, come un frutto lasciato al sole.
    Sempre bellissime le tue immagini, sentivo il rumore dell’acqua sulla chiglia 😊

    • massimolegnani 6 giugno 2017 a 10:23 #

      sì, se un amore, un’attrazione, si è nutrito di lontananza, l’avvicinamento può diventare un azzardo.
      mi è sembrato che Venezia potesse rappresentare bene le due facce dell’amore,
      quella smagliante di luce e quella che nell’ombra imputridisce.
      grazie Mela, un abbraccio
      ml

      • lamelasbacata 6 giugno 2017 a 10:46 #

        Una rappresentazione molto azzeccata.
        Un abbraccio a te!

      • massimolegnani 6 giugno 2017 a 11:17 #

        doppio grazie 🙂

  4. rodixidor 6 giugno 2017 a 09:25 #

    C’è una Venezia in ogni donna, c’è Venezia in ogni amore. Molto ben scritto questo racconto tra atmosfere cupe e girovagare da gatti.

  5. Tati 6 giugno 2017 a 09:31 #

    “… finalmente è rabbia e odio”, sì bisogna passare di lì per farsi scivolare il dolore: quel “finalmente” è perfetto!
    Sempre bravo, scrivi con parole leggere che scorrono come fiume e mai ristagnano come in canale… 🙂

    • massimolegnani 6 giugno 2017 a 10:30 #

      sì, la rabbia e l’odio rappresentano la fase di accettazione, fino a quel momento lui rileggeva la lettera
      sperando ancora in parole diverse.
      grazie Tati, mi è molto piaciuta la tua metafora del fiume e del canale 🙂
      un sorriso
      ml

  6. Cose da V 6 giugno 2017 a 13:49 #

    Bellissimo. Mi è venuta in mente una cosa, una città può essere bellissima e magica, ma se si soffre la si vede brutta e non la si sente propria. Mi è capitato con Verona, bella e tutto quanto, ma fredda e glaciale come mi sentivo io. Trieste bella e viva, come mi sentivo io in quel periodo… Comunque ottime le tue descrizioni e la storia che hai scritto. Tutto ben realizzato.

    • massimolegnani 6 giugno 2017 a 14:19 #

      hai ragione, è così, V, la città non muta, siamo noi a vederla in un modo o nel suo opposto a seconda del nostro umore e delle nostre vicende.
      un sorriso e un grazie
      ml

  7. alessialia 6 giugno 2017 a 15:22 #

    Bello bello bello….. due facce sempre ci sono… bisogna vedere quale poi ha il sopravvento… un azzardo pericoloso ma che probabilmente doveva essere… non è andata….

    • massimolegnani 6 giugno 2017 a 17:56 #

      Si’ certi azzardi sono necessari a vivere anche quando la sconfitta e’ quasi sicura.
      Grazie Alessia
      un abbraccio
      ml

  8. Primula 6 giugno 2017 a 18:57 #

    La lontananza mitizza, niente di più verosimile di questo tuo racconto condotto davvero bene. Mi è piaciuta la teatralità del gesto finale che sottolinea la liberazione di Nicola da un falso ideale.
    Venezia: apertura e stagnazione. Ottima scelta come sfondo di una storia che avrebbe potuto prevederle entrambe.

    • massimolegnani 6 giugno 2017 a 23:59 #

      mi fa piacere la tua sottolineatura dello sputo. è il gesto di disprezzo che accomuna Benedetta e Venezia e sancisce la fine dell’amore per entrambe.
      Grazie Primula per le belle parole,
      buona notte
      ml

  9. ivano f 7 giugno 2017 a 00:46 #

    Stupendo.

  10. Daniele Verzetti Rockpoeta® 7 giugno 2017 a 10:40 #

    Bellissimo ma straziante. Le riletture precedenti sperando ogni volta di aver letto male di poter cambiare le cose e poi la rabbia dell’ineluttabilità. Straziante, fa venire voglia di urlare per poi piegarsi in un pianto sommesso.

    • massimolegnani 7 giugno 2017 a 13:18 #

      già, credo sia capitato a tutti prima o poi di leggere e rileggere un biglietto, increduli sul suo contenuto, solitamente drammatico. poi viene la rabbia e infine la rassegnata accettazione, e a quel punto il biglietto non ha più ragione di esistere.
      Grazie Daniele,
      ml

  11. remigio 7 giugno 2017 a 18:13 #

    Tu mi nomini Procida, ed io vado con il pensiero a “l’isola di Arturo”, di Elsa Morante. Tu mi nomini Venezia, ed io penso a “Morte a Venezia” di T. Mann. Mi viene da pensare che il tuo bel racconto, velato di dolce malinconia, rincorre le atmosfere e i luoghi descritti nelle pagine di questi due grandi libri. Bravo Massimo! 😉

    • massimolegnani 7 giugno 2017 a 20:48 #

      bè, Remigio, per metà ci hai preso, che in effetti mentre scrivevo di Venezia pensavo a certe atmosfere cupe di Mann.:)
      ciao e buona serata
      ml

  12. Sabina_K 8 giugno 2017 a 18:02 #

    Non potevi scegliere meglio per ambientare il tuo racconto, perché Venezia può anche trasformarsi in una trappola d’acqua.
    Anch’io come Remigio, ho pensato a Thomas Mann e al prof. Aschenbach.
    Poche città sono così ambivalenti: ora cupissima, ora raggiante, ma sempre ugualmente fascinosa.
    Posso dirlo? Questo post mi è piaciuto moltissimo.

    • massimolegnani 8 giugno 2017 a 19:01 #

      Caspita se puoi dirlo, mi fai contento 🙂
      Venezia ha la prerogativa di assumere le sembianze di qualunque forma d’amore, una sorta di specchio dell’animo umano.
      Grazie Sabina
      ml

  13. Stefi 11 giugno 2017 a 10:12 #

    L’assenza che nutre molto più della presenza.
    Vivere d’immaginazione, come chi scrive, come chi sogna.

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