Dietro la porta, appostato apposta, aspetto la posta. Mi son svegliato pesto, ieri ho corso in pista e a sera sono crollato sul posto davanti alla tele.
Attendo attento ma il postino non arriva: fosse forse finito nel fosso? Che fesso! Fisso la rossa buca delle lettere: vuota, è una farsa quest’attesa.
Stufo vado alla stufa, stiro sette stoffe, leggo scartoffie, bevo il bicchiere della staffa. Poi mi sposto al posto del cuoco, preparo pasta al pesto, due piccole paste ai pistacchi, poche pasticche di cioccolato. E pasticci posticci di pesticidi, pratici e paralitici per chi mi pesta i piedi.
Era un pomeriggio piovoso di mezzo autunno, di quelli che è subito sera e desideri solo di essere presto a casa.
Il professor Enzo Pelozzi, mentre stava rincasando con già le chiavi in mano, quasi non la vide, una bimbetta fradicia di pioggia accucciata in un angolo del portico, non lontana dalla porta d’ingresso. Sembrava un cagnolino randagio che avesse trovato un provvisorio rifugio dalla pioggia.
Che ci fai qui, piccola? le chiese senza chinarsi su di lei.
La bimba lo fissò senza rispondere. Tremava sin negli occhi.
Enzo tornò sulla strada e si guardò intorno, ma la via era deserta, niente che potesse spiegare la sua presenza lì.
Si rivolse di nuovo a lei, sempre sovrastandola dalla sua altezza: Chi sei? Ti sei persa?, ma non ebbe risposta.
L’uomo borbottò qualcosa tra sé e finalmente si chinò sulla bambina. Accennò una carezza goffa, poi la prese un po’ maldestramente in braccio come si può fare con un gattino ed entrò in casa.
Papà, mormorò lei strusciandosi addosso a lui, mentre varcavano la soglia.
No, piccola, non sono tuo padre.
Papà, papà, piagnucolò la bimba avvinghiandoglisi al collo.
Senti, capisco che sei scossa, ma stai dicendo una stupidaggine.
Il professore era a disagio, non aveva alcuna dimestichezza con i bambini. Provò a insistere: dimmi come si chiama il tuo papà, così ti riporto da lui, senza ottenere risultato, se non quella sola parola ripetuta come una cantilena, papà, papà, papà.
Quella assurda attribuzione di paternità lo irritava, tutta l’assurdità della situazione lo stava irritando, ma cercò di mantenere la calma.
Sai cosa facciamo? Ti preparo qualcosa di caldo e poi telefoniamo alla polizia.
La sistemò su una poltrona e andò in cucina.
Quando tornò in soggiorno reggendo una tazza di tè, la bimba si era addormentata.
La guardò perplesso, sembrava più grande di come l’aveva lasciata.
Fino a un momento prima le avrebbe attribuito tre-quattro anni, ora non poteva averne meno di sette. Eppure i vestiti, una gonnellina, una maglietta e un golfino, le stavano di misura. Evidentemente all’inizio non l’aveva valutata bene. D’altronde non era pratico di bambini. La svegliò passandole una mano sulla faccia in una carezza impacciata.
La bambina aprì gli occhi, lo fissò per qualche istante e poi abbozzò un sorriso alla vista della tazza fumante. Non sembrava stupita di trovarsi lì. Disse grazie, signore, afferrando la tazza. Bevve d’un fiato, mentre Enzo, rinfrancato dal fatto che non l’avesse più chiamato papà, provò a interrogarla.
Come ti chiami? Ti ricordi dove abiti? Chi sono i tuoi genitori?
Il vomito arrivò improvviso, appena preceduto da una smorfia, prima che gli potesse rispondere. Ora era scossa da brividi. Solo allora l’uomo realizzò che i vestiti erano zuppi d’acqua, e adesso anche di vomito. Le ripulì la bocca, ti prenderai un accidente se non ti togli questa roba bagnata.
La prese di nuovo in braccio, gli sembrò più pesante. La portò in camera e la depose sul suo letto. Dovette aiutarla a spogliarsi, perché da sola non riusciva a togliersi gli indumenti fradici.
Mettiti sotto le coperte, mentre io cerco di asciugare la tua roba.
La bambina, ancora tremante, ubbidì. Enzo la frizionò attraverso le coperte, commosso da quel volto pallido in cui risaltavano occhi scuri come la notte.
Va meglio, ora?
Lei rispose con un cenno muto del capo. Aveva un graffio su una guancia.
Il professore non aveva ancora avvisato la polizia. L’avrebbe fatto più tardi, ora doveva sciacquare gli indumenti e trovare il modo di asciugare almeno le mutandine e la maglietta.
Stese gli abiti in bagno, sopra la vasca. Gocciolavano, non si sarebbero mai asciugati per tempo. Accese una stufetta elettrica ed orientò il getto d’aria calda verso lo stenditoio.
Uscendo dal bagno per andare a telefonare, udì dei lamenti sommessi provenire dalla sua camera. La bambina scottava e gemeva nel sonno. Il volto era più gonfio, le labbra screpolate più pronunciate, mature. Effetto della febbre, pensò Enzo, e rovistò nel cassetto del comodino alla ricerca di un termometro, senza trovarlo. Alla fine, lo trovò in tutt’altro luogo, nel bicchiere sulla mensola sopra il lavandino assieme al dentifricio e i due spazzolini. Conservava ancora lo spazzolino di Clara, idiota che era.
Scostò le coperte per infilarglielo sotto un’ascella e fu colpito dal goffo gonfiore del petto di una pubertà all’esordio.
Il turbamento lo avvolse come una nebbia spessa. Cercò di ripensare a quando l’aveva incontrata sotto il portico e, poco più tardi, a quando le aveva offerto il tè, provò a confrontare le sequenze ricostruendo i tratti del volto, le forme minute del corpo infantile. Ma improvvisamente era tutto così confuso, irragionevole, impossibile da decifrare.
La febbre era alta e la bambina sembrava mormorare qualcosa nel delirio. Accostò l’orecchio alle sue labbra, ma non riuscì a comprendere le parole. Le mise delle pezze bagnate sulla fronte e attorno al collo. Con fatica riuscì a farle bere mezza compressa di Tachipirina sciolta in poca acqua. Poi, seduto su una poltroncina vicino al letto, attese. Che cosa attendesse, se lo sfebbramento o un’evoluzione misteriosa degli eventi, non se lo volle confessare.
Fuori infuriava un temporale fuori stagione. Al terzo lampo venne a mancare la corrente.
Enzo frugò in giro finchè racimolò qualche candela.
Tornò a sedersi sulla poltroncina a scrutare la sua ospite. Alla luce incerta e rossastra delle candele il volto della bambina… no, ormai non poteva più definirla bambina, inutile ingannarsi. Il volto della ragazza appariva più intenso. Gli occhi erano due ombre profonde, il graffio sulla guancia era più lungo, pur andando sempre dallo zigomo a poco sopra la mandibola, e sembrava più recente, una piccola ferita non ancora rimarginata. Le labbra socchiuse e il mento, teso in avanti, sembravano voler inseguire qualcosa.
Avrebbe voluto interrogarla, ripetere le domande che già le aveva posto, ma con una curiosità diversa. Stranamente ora gli premeva soprattutto conoscere il suo nome, come potesse essere quello il punto di partenza per spiegare l’inspiegabile. Irene, pensò senza un motivo preciso. Non ricordava più che cosa significasse in greco, speranza, felicità, serenità? Meglio così, Irene sarebbe stato il suo nome provvisorio, dal senso indefinito ma per lui preciso. Sì, non poteva chiamarsi che Irene. La ragazza si agitò all’improvviso, scalciando via le coperte. Il professore rimase immobile, stupefatto. I bagliori sulla pelle, l’affanno del petto, i fianchi stretti, il sesso oscuro. E quel seno prepotente, scolpito nel marmo. Irene, mormorò, senza saper proseguire. Contemplò la bellezza, incapace di fare altro.
Faticò a riscuotersi. Si alzò in piedi, ricoprì Irene, le bisbigliò qualche parola e aspettò che il suo respiro tornasse regolare. Poi uscì sul balcone, si appoggiò alla ringhiera stordito e si lasciò investire dallo scroscio d’acqua, senza che questo fosse di alcun aiuto.
Andò in bagno ad asciugarsi e si guardò a lungo allo specchio: aveva nuove rughe? I capelli erano più radi? La barba s’era ingrigita? No, non trovò nulla di cambiato nel proprio volto. Lui era quello della sera precedente. E Irene? Che cosa le stava succedendo?
Tornò in camera, turbato ma ormai aperto a qualunque cambiamento.
Si era appena seduto e stava assimilando le sue nuove fattezze quando un tuono più forte degli altri fece urlare e sobbalzare la donna. Seduta sul letto, sembrava cercare la sua presenza, anche se gli occhi sgranati davano l’idea di un’assenza dalla realtà.
Giacomo! Oh Giacomo, per fortuna sei tornato.
Un breve imbarazzo, poi Enzo rispose:
Sì, Irene, sono qua. Riposati ora.
Giacomo, non lasciarmi sola. Ho paura.
Calmati, Irene. Io non me ne vado. Sto qui a vegliarti.
Giacomo, vieni nel letto, scaldami. Ho tanto freddo, senza di te.
Lui non era Giacomo. Lei non era Irene. Ma che importanza aveva?
Enzo si spogliò e s’infilò nel letto, continuando a parlarle. Si strinse alla sua schiena, bisbigliandole parole che da troppo tempo non pronunciava. Lei gli prese una mano e se la portò al petto. Un seno morbido, non più di marmo, ma pieno, caldo, vivo, vissuto.
Irene lo amò in una sorta di trance che non le dava forse consapevolezza dei propri atti, ma che le manteneva intatta la grazia dei gesti dell’amore di cui era capace. E lui l’assecondò con pari intensità e medesima incoscienza.
A notte fonda il professore sgusciò fuori dal letto e si rifugiò in bagno. Interrogandosi allo specchio non si sentì nè euforico né colpevole. Semmai si sentiva giusto, se poteva usare quella parola.
Enzo spense le candele e sistematosi sulla poltroncina si dispose a vegliare il sonno agitato di Irene, come le aveva promesso. Attraversò la notte in un buio placido alternando sguardi ciechi alla donna a brevi sonni. Aveva netta la sensazione che Irene stesse proseguendo in quell’inarrestabile maturazione e, non a caso, sognò un pane che lievitava sotto un telo.
Fu svegliato dal chiarore dell’alba che andava illuminando la stanza. Con la testa appoggiata al bordo del letto, guardò da vicino la mano che stringeva nella propria. Una mano scarna, ricoperta di grinze e di macchie come una tovaglia troppo usata. Non se ne meravigliò. Alzò lo sguardo verso l’anziana che riposava nel suo letto. Le sorrise.
Buongiorno, Irene.
La vecchia aprì un occhio velato dalla cataratta e subito lo richiuse come se quel gesto l’avesse spossata. Poi, mantenendo gli occhi chiusi, rispose buongiorno Giacomo, con una voce faticosa che sembrava provenire dalla profondità di una caverna.
Enzo lesse le rughe sterminate del volto come tanti ricordi appesi ad asciugare. Gli sembrò di conoscere tutta la sua vita.
Quanto hai vissuto, Irene, e quanto hai amato!
Le tenne la mano, bisbigliandole altre parole che lei forse non sentiva. L’uomo, vicino alla vecchia che solo ieri era bambina, provava una gioia quieta che contrastava con l’imminenza della fine. Era come accompagnare fino al cancello un’amica per un addio definitivo, dopo tante ore liete trascorse insieme.
Il respiro di Irene si fece più irregolare, divenne un rantolo faticoso, lui sempre accanto a cullarla di parole e di silenzi.
Il fiato anziano si spense del tutto.
Enzo si alzò, si chinò a baciarla sulla fronte e solo allora, barcollando come ubriaco, andò a telefonare.
Alla voce del poliziotto che lo incalzava ripetè più volte Irene è morta, sempre più flebilmente, senza riuscire ad andare oltre.
Adagiata sui campi, al di là delle piante che la rendono invisibile, la sento soffiare e sbuffare come un enorme animale preistorico che si stia risvegliando dopo un lungo letargo.
Camilla, la mia cagna, abbaia disperata, non si dà pace, credendo che sia un drago sputafuoco.
Gioco ginnico al giullare, giravolte gorgheggi e gags, gesticolo e gattono, ma gemono le giunture guaiscono le ginocchia gridano grazia le gambe gracili.
Il bello di Novembre è la sera così vicina all’alba, parti al primo sole con la nebbia che ristagna pigra sui campi, torni al crepuscolo quando la bruma resta sospesa come un velo sopra il primo grano e in poche ore hai viaggiato attraversando tutta la giornata.
Il nostro uomo assomigliava a una clavetta da ginnasta o, se preferite, a un birillo da bowling. Insomma, immaginate una testa piccola e un torace sottile, seguiti da un addome svasato, che si slargava verso il basso come sopraffatto dalla forza di gravità.