Il bello di Novembre è la sera così vicina all’alba, parti al primo sole con la nebbia che ristagna pigra sui campi, torni al crepuscolo quando la bruma resta sospesa come un velo sopra il primo grano e in poche ore hai viaggiato attraversando tutta la giornata.
Il tempo clemente ci ha risparmiato il fango ma ci ha fatto mangiare tanta polvere. Le strade bianche sono un bellissimo serpente che si snoda all’infinito sui crinali e che ci tenta di continuo con salite faticose e discese accidentate.
Allora, cosa hai fatto di bello questa settimana?, chiede Giacomo, ma si capisce dalla faccia arricciata che gli interessa poco la risposta. Domanda per avere di rimbalzo l’occasione di raccontare che cosa ha fatto lui.
Sono stato in una valle non lontana da qui, quasi nascosta e poco frequentata perché la strada s’inerpica ripida e sconnessa. Io poi avevo pure la tenda legata sopra lo zaino, quindi è stata davvero una fatica! Ma, arrivato su, c’è un pianoro dalla bellezza spartana. Camillo gesticola, fa un gesto ampio con la mano come disegnasse la piana nell’aria. Una prateria sconfinata con attorno boschi e più lontano cime scintillanti. Ho appoggiato la bici a un palo e ho proseguito a pie…
Strade troppo trafficate da TIR tracotanti, tento tracciati alternativi, ma son sentieri stretti, sterrati da farti tremar le braccia, tracce incerte che a tradimento s’interrompono.
Confesso che non ho mai amato la Liguria, troppo affollata e troppo costruita. Ma ero io che forse sbagliavo i tempi, le domeniche obbligate, il mezzo, l’auto che s’imbottigliava senza trovare parcheggio e gli itinerari, passi costretti seguendo la moltitudine.
Io credo che solo pedalando, o forse andando a piedi, possa capitare di sbalordire di meraviglia di fronte a scenari di natura che ti si parano davanti inaspettati.
Prima era un telo impermeabile che l’avvolgeva sul terrazzo a proteggerla dal freddo, quest’anno è un locale riscaldato che tratta la nuova bici da regina e la nasconde al mio rimorso che da un mese preferisco la poltrona ai suoi pedali e i piedi li tengo spesso sotto il tavolo ad abbuffarmi come avessi pedalato. Me lo rammenta con severità il diario elettronico delle uscite, che a dicembre è desolatamente vuoto.
Quando si pedala in compagnia, le ruote della bici si trovano a metà strada tra le ciliegie che invitano a prenderne ancora e le mani che una lava e aiuta l’altra.
Mi ha sempre affascinato il sincronismo dei cambi quando una ruota deve andar davanti e con fatica tirare le altre.
Per qualche anno è stato un vanto usare solo l’energia delle mie gambe in bici, mentre gli altri erano già passati all’aiuto elettrico. Come un pavone a far la ruota dietro a tre struzzi, tenevo la mia ruota dietro a quelle dei miei amici sfruttandone la scia. In fondo ero già elettrico anch’io, per interposte bici, che con loro davanti a tagliarmi l’aria raggiungevo velocità per me inimmaginabili senza il loro poco volontario supporto. Questo in pianura, con mio spasso e loro scorno, ma quando c’era da salire a loro bastava aumentare la potenza del motore per piantarmi in asso e aspettarmi in cima, freschi e rilassati, io che arrivavo stravolto e senza fiato. Ma anche in quel momento, agli inviti irridenti degli amici a usare una bici facile come la loro, opponevo un rifiuto intransigente, orgoglioso dei miei muscoli ormai fiacchi.
I nostri laghi alpini hanno la bellezza di essere circondati dalle montagne, come piccoli mari di Liguria o un minimo Tirreno giù in Calabria. Ma qui non è la Sila o il Giogo di Toirano a far corona all’acqua, sono rilievi tozzi, spesso senza nome, a incombere a strapiombo sulla costa, senza nulla di minaccioso. Assomigliano le rocce alle dita delicate di un gigante. Fanno ombra alla strada, i monti, si riflettono nell’acqua e danno un senso di refrigerio già al solo pensiero di salire ai loro boschi. Un’ascesa scoscesa che nella semplificazione della mente diventa un andare senza sforzo. Ma non è mai così: a piedi o sui pedali la conquista del fresco costa sudore, non c’è un motore, oltre quello del tuo corpo, che faccia per te il lavoro sporco della fatica. È il controsenso del ciclista, per non sudare più, prima devi sudare tanto e a lungo.