Anche quando la bizzarria del clima stravolge i piani e capovolge i mesi, trasformando maggio in un marzo imprevedibile o in un novembre deprimente, ci sono due o tre cose che in queste settimane aspetto e che puntuali arrivano, benefiche come il 27, a confortare l’animo.
Quando serve non trovo mai la parola giusta per tradurre ciò che sento, dovrei imparare il vocabolario a memoria, sfogliarlo nella testa e, tac, scodellare in scioltezza la parolina esatta. Ma non ci riesco mai. Come stamattina, mi sono svegliato che avevo una specie di nuvola sopra la testa, sai quelle compatte e bianche che basta guardarle e piove. Mi sono alzato perchè credevo che bastasse essere cosciente per far uscire limpida quella pioggia che da sola trasforma la nebulosità in chiarezza di pensiero. E invece niente, sta svaporando in fretta come un’eredità promessa troppo presto, a babbo ancora vivo. Avevo sognato la bellezza, e bellezza non è nemmeno la parola giusta. Avevo nella mente addormentata quella sensazione di bellezza che incontro spesso quando vado, me la trovo davanti che non me l’aspetto, ogni volta un’america, meglio di Colombo, uno stupore per la terra che credevo l’India e non so che nome abbia.
È buio a mezzogiorno. Piove a dirotto sulla terrazza, sembra la tolda di un vascello fantasma spazzata dalle onde, o forse è la nave di Fitzcarraldo incagliata come un’utopia nella foresta tropicale.
Mia sorella accovacciata sul sedile aveva già le mani sulla leva del comando, io ero perplesso ancora prima di salire per sedermi al suo fianco. Era la nostra prima volta sulla giostra degli aeroplanini, lei euforica per quel battesimo dell’aria, io mi sentivo appiccicata addosso la paura con la faccia smarrita di Stanlio, uguali orecchie a sventola, stesso viso bislungo come un punto esclamativo, sai i filmini della domenica senza sonoro (“stagno e olio” li chiamavo io con logica stringente di bambino che s’appiglia alle parole che già conosce) forse per questo nemmeno io parlavo, muto subivo l’avventura sulla giostra. Mi mancava solo la bombetta sotto cui grattarmi disperato la capoccia con espressione affranta assai ridicola. Non ci eravamo ancora mossi ma in cuor mio ero certo, non poteva che essere un disastro.
Per un intero anno sottoterra ad aspettare, io bulbo quieto al buio, mesi a dormire e sognare il momento in cui sarei fiorito. Sapevo di essere il più bello dei fratelli, il portamento slanciato, il mio rosso fuoco screziato di giallo, la robustezza del gambo, la purezza del profilo, ogni elemento avrebbe contribuito al mio successo.
Tornare all’antico è sempre un progresso, me lo ripeteva a proposito e a sproposito, a volte si limitava all’italiano, altre lo declamava in latino, più raramente in greco. Mio padre. Io mi irritavo allo stesso modo in tutte le lingue, ero a una distanza siderale da quelle parole, a vent’anni non hai un passato che ti attiri, tutto è futuro, velocità, progresso. Era l’età dell’oro, così credevo, così per anni, in un andare avanti ottuso, senza chiedermi per dove. E il motore era il mio idolo nella religione del progresso, usavo la macchina anche per attraversare la strada. Velocità e pigrizia un connubio disastroso.
Immaginati a metà di una mattina di maggio in Austria, pochi gradi sopra zero, ma aria e ora perfette. Un’aria trasparente che non la vedi nemmeno in controluce ma la senti mulinare nei polmoni, e un’ora che ti aspetta lì, al punto esatto, precisa come un appuntamento che non avevi dato.
Sotto casa una bambina con una gonnella rossa salta la corda e intanto conta. Si blocca a un certo numero incespicando con i piedi o impappinandosi con la voce. Ha un breve smarrimento, poi ricomincia imperturbabile la conta dall’inizio e intanto riprende i suoi saltelli. Sarà una suggestione ma ho l’impressione che s’interrompa sempre allo stesso numero, giusto quello dei miei anni, come non potesse andare oltre. Questo mi fa male come una ferita della falce. Vorrei scendere dalla bambina e saltare assieme a lei, aiutarla a superare il numero fatidico come fosse sufficiente ciò per ottenere una proroga all’affitto di questo corpo in prestito. E intanto vorrei poter fare come fa lei con la naturalezza dell’infanzia, azzerare anch’io i salti precedenti, rivivere tutto da capo per commettere sbagli differenti o per ripetere errori ed omissioni tali e quali.