Dicono che non ci sono con la testa e forse hanno ragione, ma per la ragione opposta a quel che dicono. Non è il salire al tetto a sera la mia follia, è questo starmene tranquillo tutto il giorno, come non ci fosse nulla per cui valga la pena. Ed è una pena starmene in poltrona, pantofole e giornale, guardare il canale oltre la finestra, veder scorrere l’acqua e le parole e non tentare di fermarle. Eppure mi trattengo, tengo a bada il lupo e il pavone, fremo e sorrido al mondo storto e a quello quadro.
– Si ricorda, maresciallo? Le spiegavo che in inverno non sarebbe potuto succedere. D’inverno è troppo freddo per fermarsi a riflettere, le dicevo tutto infervorato, non si lasciano pause morte tra un fare e l’altro, siamo atomi agitati, non c’è la temperatura adatta a farsi domande esistenziali che poi non sai dove ti portino. Lei mi guardava perplesso, aveva sollevato la visiera del berretto con la fiamma d’ordinanza come per scrutare meglio le mie rughe, trovare forse in quelle il senso del mio vaneggiare. Sostenevo che a gennaio non puoi soppesare un tradimento, misurare uno sgarbo, nemmeno immaginare una reazione. Ma in estate, con tutte quelle ore lente, quegli atomi immobili, in estate ti fai le domande e sei tutto un ribollire di risposte rancorose.
Beh, me lo lasci dire, erano tutte fesserie che le spiattellavo per giustificare il mio delitto.
Forse ci credevo davvero, ma adesso mi rendo che era una stupidaggine: sì, anche a gennaio puoi avere buoni motivi per uccidere. E non mi guardi con quella faccia smarrita, maresciallo.
Ho ignoranze straordinarie, ma intendiamoci niente di nobile alla Diogene (macchè Diogene, era Socrate, ignorante! Ecco, appunto) che del non sapere faceva il grimaldello per scardinare il pensiero filosofico corrente.
No, la mia ignoranza, semmai, assomiglia alla mediocritas di Epicuro, senza però essere aurea, una mediocrità collosa, la mia, che m’impantana e mi tiene appiccicato al non sapere, senza la volontà di togliermi di lì.
Dopo la neve piove, ostinatamente, e per le strade è una poltiglia di fango, sabbia e sale, come essere all’ultima spiaggia. Un cielo incolore di nuvole e nebbia ristagna annoiato a pochi metri da terra. La città si trascina moribonda tra ombrelli cupi, abiti sbiaditi e altri grigiori. È viscido l’asfalto, sporca la pioggia, brutta la gente incarognita, uscirne vivi non è facile.
Adagiata sui campi, al di là delle piante che la rendono invisibile, la sento soffiare e sbuffare come un enorme animale preistorico che si stia risvegliando dopo un lungo letargo.
Camilla, la mia cagna, abbaia disperata, non si dà pace, credendo che sia un drago sputafuoco.
Il bello di Novembre è la sera così vicina all’alba, parti al primo sole con la nebbia che ristagna pigra sui campi, torni al crepuscolo quando la bruma resta sospesa come un velo sopra il primo grano e in poche ore hai viaggiato attraversando tutta la giornata.
Lo avevo bevuto in una circostanza poco propizia ad apprezzarlo, una cena di commiato, le nostre strade si stavano separando e non per scelta mia.
Preso com’ero dallo sconforto, non avevo badato a che bottiglia scegliere, faccia lei avevo detto infastidito al cameriere, e poi avevo impiegato diversi bicchieri prima di essere colpito dalla squisitezza di quel vino sconosciuto. Fu una folgorazione: una pastosità alla bocca, come una ragnatela, un calore rosso sulla lingua che si manteneva a lungo dopo la sorsata. Feci per guardare l’etichetta ma lei, con una giocosità sciocca che cozzava contro il mio malumore, la nascose con la mano dicendomi che avrei dovuto indovinare. Al diavolo il nome, non ero in vena di indovinelli, ma la sensazione di tela di ragno che mi impolverava il palato era per me il segno dell’assoluta perfezione.
Ciascuno di noi apre le proprie pagine come ante di un armadio, guarda dentro e scrive, scrive tanto, dando forma e pensiero alla parola che poi ripeterà infinita.
Ciascuno di noi s’illude di dire ogni volta cose nuove, concetti, storie, fantasie, quando invece, senza volerlo, torniamo sempre lì, a quello che ci preme, noi come assassini senza colpa che non sanno star lontani dal luogo del delitto.
Certe cose che scrivo non sono mai finite, peggio di una fabbrica del Duomo in milionesimo o di una Sagrada Familia in miniatura, soprattutto se mi sono appassionato a scriverle e mi ha soddisfatto il risultato. C’è un controsenso che mi perseguita, perché più mi sembra sia riuscito bene un brano e maggiore sento il bisogno, dopo qualche tempo, di modificarlo. Non è la ricerca di un’inesistente perfezione, è l’ossessione di trovare parole che meglio dicano quello che ho dentro, ma non so che cosa ho dentro, un’emozione senza forma, una cianfrusaglia di sentimenti arrugginiti, che pretendo diventi chiara agli altri.