Per anni, il mondo attorno gli era sembrato nebbia che persiste fuori dalla sua stagione, una miopia di sguardo sulle cose ma anche una cortina a tenere una distanza di sicurezza dalla vita. Era uno stare in bilico tra benessere e oppressione, con la convinzione che sarebbe bastato un soffio per diradare la foschia quando avesse voluto.
Più avanti nel tempo, il cumulo di affetti, di incombenze, di amici, di lavoro, di svaghi, tutte cose che subiva più che cercare, diventò come una ragnatela sulla pelle, un fastidio, forse, che puoi sempre distruggere con una manata.
Quindi fu la volta della sindrome da accerchiamento, sai gli indiani, la minaccia delle frecce e delle lance, indiani ovunque attorno ai carri dei pionieri in cerchio. Ma la sua angoscia di morire trafitto dalla vita era poco più di un gioco, che tanto, prima o poi, arriveranno i nostri.
Ma il soffio ad annullare la nebbia, la manata di fastidio contro la ragnatela, il soccorso dei soldati blu, lui non si decideva. C’è tempo, si diceva, posso salvarmi quando voglio. E non voleva mai, che in fondo i compiti, i consigli, gli incarichi, i suggerimenti d’altri, per quanto lo potessero irritare, gli alleggerivano la vita. Era il sollievo di ogni giorno non prender decisioni in prima persona, e le poche d’obbligo procrastinarle sine die.
Quando si accorse che la pressione che percepiva dall’esterno era in realtà una rete che si stringeva attorno a lui, lui pesce con sempre meno acqua in cui nuotare, lui uccello che non ricordava il cielo, prima la voliera a illuderlo di non aver confini, poi una gabbia dove non poteva nemmeno sbattere le ali, quando si rese conto della consistenza in ferro della rete e dell’esiguità dei buchi tra le maglie, quando comprese l’irreversibilità dell’argano, ogni suo giro un avviluppo a chiudere, ormai era tardi per opporsi. A quel punto era una chimera solo a pensarla la ribellione a ribaltare il tavolo.
Così si arrese senza lottare. Come fosse sonno si abbandonò alla rete, lasciò che lo avvolgesse un giro dopo l’altro, un bozzolo a soffocare con lentezza. Lui baco senza seta, senza sete di diventare mai farfalla.
* Il brano ha partecipato al gioco di scrittura su mimettoingioco.wordpress.com con tema La Rete e il divieto a usare aggettivi.
Paolo si inchina e anche Lucia 🙂
Paolo sta di diritto nei “dintorni di Camillo, e tu mi commuovi con l’inchino
Grazie Lucia
ml
E anche quest’altra Lucia:-)
e grazie anche a te, di Lucia 🙂
ml
E’ la fatica della libertà quotidiana. Forse tanti di noi che si ribellerebbero magari a un dittatore, non si decidono a far uscire quel soffio, a dare quella manata, Procrastinare, non decidere… conosco bene quel falso alleggerimento della vita, e tu lo esprimi davvero benissimo, in modo quasi poetico, ma il dito che va a piazzarsi con precisione chirurgica nella piaga… 🙂
hai detto giusto, è una tentazione quella di lasciar fare agli altri, chiamarsi fuori, abdicare pigramente. Ed è fatica, d’altra parte, quella che definisci con appropriatezza “libertà quotidiana”.
grazie, ciao,
ml
Non è facile non usare gli aggettivi ma te le sei cavata egregiamente!
sai, è stato meno impegnativo di quel che credevo.
e se dai un’occhiata anche agli altri brani di mimettoingioco vedrai che in nessuno si nota l’assenza di aggettivi. (forse sono davvero inutili!) 🙂
ciao Lisa,
ml
Certo, il dato tecnico, che comunque è frutto di uno stile già essenziale e sobrio, passa assolutamente inosservato, ma il tema di fondo no. Per me assai doloroso, per il caro ricordo di chi che ho avuto accanto e che ritrovo nelle tue parole… grazie! Immagino quanti malati avrai visto lasciarsi sopraffare senza combattere, perché già abituati a vivere così. Un abbraccio. ester
Ester, ti confesso che ho guardato con occhio critico (e amplificato) certi miei atteggiamenti rinunciatari.
Un abbraccio a te,
ml
scusa il “che” di troppo…
Che poi i che non sono mai di troppo 🙂
L’assenza di aggettivi non interferisce per niente con il ritmo di questo bellissimo scritto, scorre che è una meraviglia, sono efficaci e raffinate le metafore che hai saputo usare, il baco senza seta e senza sete, gli indiani, la voliera e la gabbia.
Brano delicato nelle parole e allo stesso tempo forte, pesante nei contenuti, opprimente come la rete che descrive, quella in cui cadiamo tutti appena venuti al mondo, o forse anche prima di nascere, e che si fa sempre più stretta con gli anni, man mano che aumenta la consapevolezza e si rafforza l’abitudine, diminuiscono illusioni ed energie. Ogni giorno le sue maglie diventano più strette, i nodi più intricati, il materiale invisibile di cui è composta più spesso e robusto. A tratti la rete è rassicurante, come fosse una bolla di puro ossigeno in cui respirare, a tratti invece diviene una morsa che soffoca e toglie l’aria.
Quasi nessuno ha mai realmente il coraggio né la forza di opporle resistenza, di distruggerla e fuggire (dico “quasi” nessuno, perché mi vengono in mente gli eremiti dell’India, che raggiunta una certa età si allontanano da tutto e tutti e vanno a vivere da soli nei boschi, dedicandosi alla meditazione, alla ricerca di se stessi e del vero contatto con il Tutto, e penso che, chissà, forse è quello l’unico modo per “uscirne”). Ma per noi altri, per quasi tutti, in fondo, magari è così che deve andare.
Mi è piaciuto tanto, questo tuo post. Più sei intimista, più sei universale, ml, pirandelliano (e mai scemo). 🙂
Descrivi la vita.
G.
mi affascinano la nitidezza dell’analisi (complimenti a parte di cui ti ringrazio) e l’originalità del tuo punto di vista: la vera rete che c’imbriglia è il mondo in toto e l’unica salvezza sarebbe l’astrazione da questo. Io pensavo a una sorta di tara caratteriale di alcuni (me in primis :-)). La tua ipotesi è suggestiva e in qualche modo assolutoria nella sua amarezza.
grazie G.
ml
(e a proposito di rete, mi emoziona quella che costruisci tu creando legami, connessioni, rimandi tra i miei brani)
Prenditi i complimenti ché altrimenti mi offendo, sono anche loro il frutto di un’accurata analisi, sai? 🙂 (ti ringrazio)
Ho visto il destino di ogni persona in quello che hai scritto, forse perché, a mio parere, più ci si immerge con sincerità nel proprio sentire più ci si avvicina al nocciolo, al mistero, quel “filo rosso”, l’intuizione che non si fa concetto e che non trova parole. Tu ci giri intorno spesso, avvicinandoti a quel centro come una spirale senza fine (e non deve averla, una fine!), anche per questo amo leggerti.
E hai ragione, perché se è vero che la rete ci imbriglia tutti è anche certo che la differenza di carattere può influire non poco sulla capacità di percepirne la presenza e di decidere sul da farsi.
G.
(c’è coerenza in tutto ciò che scrivi, è una rete pre-esistente, sei tu a crearla con le parole, io mi limito a servirmene per orientarmi) 🙂
Az, G! dove “az” è l’estrema contrazione della parola ammirazione 🙂
Date: Sun, 29 Mar 2015 16:56:19 +0000 To: agilulfo_@hotmail.it
La resa. Io mi dibatto sempre, fino all’ultimo, ribalto il tavolo, urlo, decido, strappo ragnatele, gli indiani sono io. E poi, infine, cedo. E non fa meno male.
Grazie per le riflessioni che mi susciti sempre (e per come scrivi, santiddio…). B.
“gli indiani sono io”, quanto mi piace e invidio la tua combattività.
ciao B., e grazie a te della condivisione e dell’apprezzamento.
ml